Se i racconti greci dicono la verità, la madre dei ragni era Aracne, una domestica lidia dalle mani così abili e sicure che nessuna donna artigiana poteva uguagliare nell'arte del tessere e del filare. Aracne era però arrogante.
Diceva che neppure gli dei erano bravi come lei, neppure Atena, la divinità protettrice delle filatrici e tessitrici.
Era vero che la dea era il nume tutelare di queste arti pacifiche ma era anche la divinità della guerra e non perse tempo a rispondere ad Aracne. Così sfido la fanciulla a una gara di abilità.
Nell'accettare la sfida, Aracne aggiunse all'arroganza l'impudenza.
Ella tessè una scena che rappresentava una terribile creatura, metà uomo e metà toro, che inseguiva una donna mortale. Questa, secondo lei, rappresentava gli amori degli dei.
Atena riprodusse invece una scena in cui mostrava un uomo legato in una imbracatura che sosteneva le ali fatte di piume; poichè aveva volato troppo vicino al sole le piume si erano bruciate. Questo fatto, diceva la dea, rappresentava l'arroganza degli uomini.
Poi la dea distrusse il lavoro della donna e, con un preciso ordine, la donna stessa. Alle parole di Atena, Aracne si rimpicciolì e si annerì, dal corpo fuoruscirono otto gambe sottili.
Ella trascorse il resto il resto della vita, come poi avrebbero fatto i suoi discendenti, a estrarre il filo dal ventre, muovendosi avanti e indietro e tessendo una ragnatela con i suoi filamenti appiccicosi.
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Io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l'uno e l'altro sono infiniti.
-- William Shakespeare